Tanti si un solo NO!!


Ponte sullo Stretto, non è più il movimento del No

da micromega

Tanti
sì, un solo no. La prossima manifestazione nazionale sarà contro la
grande opera, ma anche per le infrastrutture di prossimità, la bonifica
delle zone inquinate, la messa in sicurezza dei territori, opere utili
per tutti i cittadini, un sistema di trasporti pubblico ed efficiente
nello Stretto.

di Antonello Mangano
, da terrelibere.org

Kobe-Awaji
in Giappone, l’arcipelago delle Zhoushan in Cina, Halsskov-Sprogø in
Danimarca, le rive cinesi del Fiume Azzurro o Barton-upon-Humber –
novemila abitanti nel Licolnshire – sono forse mete del turismo di
massa? Si tratta dei luoghi dove sorgono i cinque ponti più lunghi al
mondo. Dovrebbero essere invase dai gitanti in base alla teoria oggi
dominante tra i favorevoli al Ponte, secondo cui l`attraversamento
stabile attirerà folle di curiosi sullo Stretto. In effetti esiste
turismo a New York e San Francisco, ma non certo perché ospitano
l’ottavo ed il nono ponte più lungo. Per il resto il Ponte è un atto di
fede. Il calcolo costi-benefici è semplicemente imbarazzante: “È
legittimo pensare che il Ponte sia uno spreco di denaro e che le
previsioni elaborate dalla società dello Stretto per il rientro dei
capitali investiti (il 40% dallo stato e il 60 dai privati, a dire il
vero finora piuttosto timidi) siano troppo ottimistiche”, ammette sul
Sole 24 Ore nientemeno che Giuseppe Cruciani, autore del libro “Questo
Ponte s’ha da fare”. “C’è chi sostiene, dati alla mano, che alla fine
sarà un flop economico e un salasso per le casse statali. Può darsi”.

Il libro “Ponte sullo Stretto e mucche da mungere
nasce nell’estate del 2009, quando quasi tutti erano convinti che il
Ponte non si sarebbe mai fatto e che agli annunci non sarebbe seguito
nulla di concreto. Comunemente si pensa che il Ponte siano i piloni che
collegherebbero le due sponde dello Stretto. Il Ponte non è quello,
assolutamente. E’ un modello politico ed economico, che può riguardare
la guerra in Afghanistan oppure un hotel 5 stelle nel poverissimo
Sudan. O ancora, per restare in Italia, il Tav o la Salerno – Reggio
Calabria.

 
 
L’elemento
comune è il trasferimento di denaro pubblico dalla collettività a pochi
soggetti privati. Negli esempi citati non esiste area ricca o povera,
non esistono esigenze reali (le cause di un conflitto armato o la
necessità di una infrastruttura). Fino a pochi anni fa chiunque parlava
di intervento dello Stato in economia era una specie di dinosauro. Era
obsoleto. Oggi lo Stato interviene pesantemente in economia, ma non lo
fa secondo i classici canoni keynesiani. Lo fa intervenendo male. Ivan
Cicconi, probabilmente il massimo esperto italiano di lavori pubblici, ha parlato di keynesismo al contrario, di un processo senza redistribuzione. Pochi soggetti privati (i contractors) beneficiano di questo sistema.

In
Italia non tutti pagano le tasse, e quasi nessuno lo fa in proporzione
al reddito effettivamente percepito. Solo i lavoratori lo fanno, perché
le imposte sono trattenute alla fonte. Dovrebbe suscitare un grave
allarme il fatto che le risorse dei lavoratori vengano drenate a favore
di soggetti già ricchi, cioè che i poveri contribuiscano – con la scusa
delle Grandi Opere – ad arricchire ulteriormente chi è già ampiamente
privilegiato.

Per mesi abbiamo ascoltato una serie di
considerazioni (“E’ tutto un bluff”, “non esiste il progetto”, “non ci
sono i soldi”) che partivano da un presupposto sbagliato: insegnare
alla società Stretto di Messina a lavorare meglio e non contestare alla
radice un modello che dall’inefficienza, dalle lungaggini, dai giochi
finanziari (project financing) trae linfa per realizzare il suo
obiettivo primario, cioè il drenaggio di ulteriore denaro pubblico. La
BIIS – un istituto del gruppo San Paolo – si occupa solo di questo:
finanziare le infrastrutture. Sul debito possono essere emesse
obbligazioni a carattere speculativo. Le imprese private interverranno
sul Ponte solo a patto che ogni centesimo sia in ultima istanza
garantito dallo Stato. I soldi ottenuti con la “finanza di progetto”
rimangono formalmente privati, e quindi non sono debito pubblico, per
cui non ci creano problemi con l’Unione Europea.

Dalle guerre
alle opere infrastrutturali inutili, il problema è quello di un
riequilibrio. La scuola, la ricerca, la sanità, i trasporti, il welfare
in genere ed ogni altro servizio essenziale vengono smantellati proprio
per finanziare le Partnership Pubblico – Privato. Il movimento contro
il Ponte non può limitarsi – e di fatto non lo fa più, si veda la
locandina della manifestazione del 19 dicembre – ad essere un comitato
tecnico che si oppone ad un’infrastruttura che rovina il paesaggio ma
si pone l’obiettivo di rendere meno squilibrata la situazione attuale.

"Non
una difesa conservativa e museale dei luoghi", dice Luigi Sturniolo
della Rete No Ponte, "ma un progetto di vivibilità, una dimensione
sociale della battaglia. Il movimento, nel diventare questo, sfugge
alle accuse di essere espressione del NIMBY, interviene sulla gestione
delle risorse economiche, sulle modalità attraverso le quali vengono
prese le decisioni che riguardano i territori e la vita degli abitanti,
sperimenta forme nuove di pratica politica".

Il paradosso è
evidente nello Stretto: quello stesso Stato che sta per sprecare cifre
folli per un collegamento palesemente inutile non riesce a trovare i
soldi per un traghetto pubblico che va avanti e indietro con una
cadenza accettabile. I traghetti sono di fatto smantellati. Non hanno
più orario. In estate il vettore privato, ormai assoluto monopolista,
si è trovato a rifiutare i clienti in eccesso – per motivi di sicurezza
una nave può ospitare un certo numero di passeggeri – ribadendo che
spetta allo Stato assicurare la continuità territoriale. Nessuna
risposta.

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