La borghesia dei rifiuti: il volto nascosto della DANECO seconda parte


Milioni di euro di appalti in tutta Italia (l’ultimo pari a quasi 300 milioni di euro per il termovalorizzatore di Salerno). E numerose società del gruppo Daneco-Unendo della famiglia Colucci finite sotto inchiesta: l’ultima indagine, scoppiata proprio nelle scorse settimane, riguarda la bonifica della Sisas di Pioltello, in provincia di Milano. Eppure, fino a marzo del 2011, Pietro Colucci occupava la poltrona di presidente dell’associazione delle imprese ambientali di Confindustria. «Sono presidente diAssoambiente – dichiara in un’intervista nel novembre 2010 – e mi vanto di essere uno che ha lavorato in un settore complicato come quello dei rifiuti senza essere stato mai condannato. Mai. Anche se sono stato indagato tante volte». Un imprenditore talmente integro da presentare in tutt’Italia il suo nuovo libro Vento a favore, scritto con l’ex ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, alla presenza di politici del calibro di Gianni Alemanno ed Enrico Letta. Nel testo l’ex presidente di Assoambiente, viene descritto come un uomo dal «riconosciuto “pedigree” imprenditoriale per l’intensa attività svolta nel settore della gestione dei rifiuti e della produzione di energia da fonti rinnovabili. A soli 22 anni era già alla guida dell’azienda di famiglia. Oggi è presidente e amministratore delegato di Kinexia, una società quotata in Borsa, attiva nel settore della produzione di elettricità da fonti rinnovabili. È anche presidente di Waste Italia, l’azienda che opera nel settore della gestione dei rifiuti, nata dall’acquisizione, nel 2000, della divisione italiana del colosso statunitense Waste Management».

Eppure anche a Pietro Colucci, in passato, è capitato di frequentare cattive compagnie. Nel luglio del 2008 il pentito di ecomafia Gaetano Vassallo, che per anni ha gestito il traffico di rifiuti per conto del clan Bidognetti, racconta agli inquirenti di aver frequentato i cugini Pietro e Francesco Colucci nel periodo d’oro del traffico di rifiuti tossici nelle discariche di Giugliano: «Ricordo che i germani Pietro e Franco Colucci unitamente al loro cugino Francesco Colucci della Cogest utilizzavano la cocaina, spesso l’abbiamo tirata insieme nei loro uffici». E ancora, Vassallo ricorda che nelle discariche di Giugliano «la ditta Colucci Appalti s.p.a. ha scaricato negli anni 1988-1992, rifiuti speciali e urbani» insieme alla Ecogest di Francesco Colucci. Dichiarazioni tutte da verificare, ovviamente. Anche se Vassallo è ritenuto dagli inquirenti una delle principali fonti di informazioni sugli affari legati ai rifiuti negli anni Novanta. In quegli anni, d’altronde, era difficile non avere a che fare con la criminalità. Le società dei Colucci erano taglieggiate dagli uomini del clanLa Torre. Per un periodo pagarono «una tangente», poi decisero di denunciare tutto, contribuendo con la loro testimonianza a 12 condanne, commutate nel 2010 dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere. In quegli anni i Colucci vincevano gli appalti per la raccolta dei rifiuti a Napoli insieme alla famiglia La Marca, di Ottaviano.

 

L’emergenza di vent’anni fa

Anno 1990. Napoli è invasa dai sacchetti di immondizia e il Comune sventola bandiera bianca. Saranno i privati a gestire la raccolta dei rifiuti, un affare da 350 miliardi di lire. Tra le ditte che iniziano la raccolta a Napoli c’è la Nuova Spra Ambiente, controllata fino al 1997 per il 49 per cento da membri della famiglia La Marca di Ottaviano. Nella compagine societaria figura Domenico La Marca, tra i titolari della discarica di Pianura che in quegli anni ingurgitò circa 40 milioni di metri cubi di rifiuti indifferenziati e scorie tossiche provenienti dal Nord (fatti su cui indaga per disastro ambientale il pm Stefania Buda). L’altro 51 per cento della Nuova Spra è controllato dallaErcole Marelli dei cugini Pietro e Francesco Colucci. Nel 2000 il Comune di Napoli revoca alla società l’appalto per la raccolta dei rifiuti e, tra le proteste di Alleanza nazionale (che all’epoca, riceveva dai Colucci cospicui finanziamenti), e ricorsi al Tar, viene emanato un nuovo bando di gara per affidare la pulizia dei quartieri gestiti dalla Spra. Ma nessuno si presenta nonostante il valore cospicuo dell’appalto. «Ancora una volta una gara va deserta – commentava nel 2000 l’assessore alla nettezza urbana Massimo Paolucci – ma siamo in grado di non sottostare a tranelli». Alcuni anni dopo la società Nuova Spra, controllata dai Colucci attraverso la Ercole Marelli, verrà colpita da interdittiva antimafia per collegamenti con il clan Fabbrocino.

Nel reticolo di società che negli anni ‘90 si occupavano di raccolta e gestione dei rifiuti in Italia è difficile orientarsi: ci provò nel 2000 la Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti presieduta da Massimo Scalia, individuando una sorta di «oligopolio tendente al monopolio» gestito da alcune famiglie: Cerroni, La Marca, Di Francia, Pisante, Fabiani e Colucci. Uomini che, a distanza di anni, continuano a condividere gli affari.

 

Quei noli ai Casalesi

«Inadempimenti coperti da una serie di false prospettazioni della realtà del servizio espletato»; una «specifica strategia sociale e negoziale che costringeva il Cmune a rispondere a interventi costante- mente emergenziali, con ricorsi a noli e subappalti». Così scrive nel febbraio 2011 il gip Tiziana Coccoluto, rispondendo positivamente alla richiesta del pm Giuseppe Miliano di mettere sotto sequestro le quote della Terracina Ambiente, società controllata dal gruppo Unendo della famiglia Colucci. Di Latina gli imprenditori dei rifiuti volevano fare un proprio feudo. Controllo diretto delle società di smaltimento dei rifiuti, conquistate a Latina e Terracina grazie ai buoni rapporti con la politica locale, quella degli ex An (i due ex sindaci delle cittadine Antonio Zaccheo e Stefano Nardi erano d’altronde cognati). Gestione di una grande discarica, quella di Borgo Montello (dove si sospetta la presenza di numerosi fusti tossici provenienti dalla nave dei veleni Zanoobia) insieme ai Cerroni (proprietari della megadiscarica romana di Malagrotta), e a Giuseppe Grossi, l’imprendiore delle bonifiche condannato per la vicenda di Santa Giulia a Milano. E poi l’ingresso con una piccola quota nell’affare di Acqualatina insieme alla multinazionale francese Veolia e al vecchio socio Ottavio Pisante, i cui rapporti coi Colucci sono fotografati già nel 2000 dalla commissione Scalia. Obiettivo: espandersi in tutta la provincia. Finisce male. Ambedue le società di rifiuti sono sotto indagine da parte dei magistrati. Le quote della Terracina ambiente vengono sequestrate e la società finisce in amministrazione controllata. A Latina il nuovo sindaco Giovanni Di Giorgi ha deciso di riprendere sotto il suo controllo la gestione della Tia, la tassa sui rifiuti. «Abbiamo tagliato di 2,6 milioni di euro i compensi alla società, vogliamo modificare il bilancio, riprendere sotto controllo il conferimento dei rifiuti in discarica, far partire la raccolta porta a porta», annuncia il primo cittadino a left. «Altrimenti – minaccia – siamo pronti a rimettere in gara il servizio». L’amministratore delegato della società, indicato dal socio privato, cioè dalla Unendo, è Valerio Bertucelli, ex amministratore anche di Terracina ambiente, attualmente indagato per truffa. Toscano, vicino al ministro Matteoli, di sicura fede aennina, Bertucelli gestiva fino al 2007 per conto dei Colucci anche la Ersu di Viareggio (per la sua amministrazione è stato accusato di peculato). Secondo le inchieste di Pierfederico Pernarella di Latina Oggi i Colucci, per espandersi in provincia, avrebbero acquisito il controllo della Terracina ambiente a un prezzo troppo basso: per poi rivalersi verso il Comune al fine di colmare i buchi finanziari e le carenze nel servizio.

Sotto le lenti dei pm di Latina è finita anche l’assegnazione di subappalti a imprese poco chiare: «Tra i soggetti beneficiari di tali affidamenti – è scritto nell’ordinanza di sequestro delle quote della Terracina ambiente – compaiono imprese e imprenditori da tempo privi dei certificati antimafia e già interessati da provvedimenti di diverse autorità giudiziarie». In particolare la Terracina ambiente, secondo le indagini condotte dai carabinieri, avrebbero noleggiato 5 autocompattatori sin dal 2007 da una società di nome Green Line. L’impresa, di proprietà di Pietro Natale e Annamaria Cecori, entrambi residenti a Casal di Principe (Caserta) è stata sequestrata dalla Procura di Napoli nel luglio del 2010. I due amministratori sono arrestati nell’ambito dell’inchiesta Normandia, accusati di essere prestanome di Nicola Ferrario, ex consigliere regionale dell’Udeur, finito anch’esso in manette perché affiliato al clan dei Casalesi, in particolare ai boss Francesco e Nicola Schiavone e Antonio Iovene.

 

L’inceneritore che piaceva alla mafia

Una torta da sei miliardi di euro per 4 impianti di termovalorizzazione, affidati ai privati nel 2002 con una gara d’appalto indetta in pieno agosto. La firma in calce è quella dell’ex governatore siciliano Totò Cuffaro, oggi in carcere a Rebibbia per favoreggiamento alla mafia. E la sua fretta di assegnare gli appalti era tale da non aver neppure il tempo di controllare i certificati antimafia delle imprese partecipanti. Tra i 4 vincitori (tutti accomunati da evidenti collegamenti societari) c’è un’Ati dal nome SicilPower a cui è assegnata la costruzione e gestione dell’inceneritore che dovrà sorgere nella provincia di Catania. La società è controllata per l’84 per cento dalla Daneco dei Colucci, insieme a due soci siciliani: il primo è l’Altecoen, azienda che, secondo la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, viene «sponsorizzata da Nitto Santapaola», capomafia della Sicilia orientale e finisce in alcune inchieste della magistratura relative alla gestione del ciclo dei rifiuti di Messina. L’Altecoen, dopo il ritiro del certificato antimafia disposto dalla prefettura di Enna nel 2005, esce dalla Sicilpower. Ma non si tratta di un grave danno, secondo una relazione della Corte dei Conti datata 2005: «Con la cessione delle proprie partecipazioni (l’Altecoen, ndr) ha lucrato sugli effetti positivi dell’aggiudicazione delle commesse pubbliche». Il secondo socio di Daneco in Sicilpower è la Db Group, con 1,2 milioni di euro di quote su 7 milioni di capitale. Azioni acquisite senza sborsare un euro. La Db Group dell’imprenditore Alessandro Di Bella, ritenuto vicino al politico locale del Pdl Pino Firrarello, acquista le sue quote cedendo alla Sicilpower un terreno a Paternò (Catania) in contrada Canizzola. Proprio quello su cui, secondo i progetti della SicilPower, dovrà sorgere l’impianto. Sul terreno, grazie a due autorizzazioni regionali, Di Bella smaltisce tonnellate di scarti tossici provenienti dagli impianti petrolchimici siciliani. A modo suo, però. Secondo le denunce dei cittadini della zona, corredate da foto e video, Di Bella lascia en plein air i big bag, i sacchi bianchi contenti pericolosi scarti industriali. Secondo le memorie consegnate alla Procura della Repubblica di Palermo dal governatore siciliano Raffaele Lombardo, Di Bella mischia i rifiuti all’argilla, di cui è ricca la zona (siamo a pochi passi dal fiume Simeto, un sito d’interesse paesaggistico comunitario) e li invia in un suo impianto, poco lontano, a Contrada Contrasto. Qui l’argilla “tossica” viene utilizzata per la produzione di mattoni. Contadini, ambientalisti, associazioni riempiono di missive la Procura di Catania per bloccare lo scempio. I magistrati intervengono sequestrando il sito il 18 marzo 2008. Di Bella, però, se la cava con poco: una multa e la promessa di bonif care la zona inquinata. L’inceneritore di Paternò stava per nascere proprio sopra una discarica illegale di rifiuti tossici. Ma non è tutto: l’appalto per il movimento terra, propedeutico all’edificazione dell’impianto, era stato assegnato all’impresa Fratelli Basilotta spa. Il suo proprietario, Vincenzo Basilotta, è appena stato condannato in appello a 5 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Uno dei più influenti consulenti tecnici della Sicilpower, infine, è Giovanni Barbagallo, geologo, nato a Catania nel 1949. Uomo fidato del governatore siciliano Raffaele Lombardo, dirigente dell’Mpa, Barbagallo è accusato di estorsione e viene arrestato in seguito all’inchiesta Iblis della Procura catanese, la stessa che ha messo in difficoltà il governatore siciliano per i suoi presunti rapporti con la malavita. In un interrogatorio reso ai magistrati catanesi – anticipato dal giornalista Antonio Condorelli su S Catania – Barbagallo ricorda di essere stato contattato da Lombardo per convincere i tecnici della Daneco a spostare l’impianto da Paternò alla zona industriale di Catania. «Ne parlai con un ingegnere della Daneco, tale Filipponi». A meno di una omonimia si tratta di Bernardino Filipponi, amministratore delegato della Daneco impianti, già sotto inchiesta a Milano e Benevento.

Lo sbarco della Daneco in Sicilia fallisce: la giunta Lombardo blocca l’affare degli inceneritori. Ma rimane qualche strascico. La vicenda è da oltre un anno sotto il setaccio della Procura di Palermo, che ha ricevuto anche un fascicolo aperto a Catania sull’aumento di valore dei terreni di di Bella a contrada Cannizzola.

 

Carte false

A leggere le carte sarebbe dovuta essere una discarica modello. Tutto in regola, permessi, relazioni idrogeologiche, vincoli. Solo che le carte non rispecchiavano la realtà. È quanto sostiene la Procura di Lamezia Terme sulla discarica di Pianopoli, in Calabria, autorizzata nel 2004 grazie a un’ordinanza (n. 2873) dell’allora commissario per l’emergenza rifiuti in Calabria Giuseppe Chiaravalloti, ex presidente della Regione. A ricevere il permesso per realizzare e gestire l’invaso per rifiuti speciali non pericolosi è la società Eco Inerti di Vercelli, che trova tutte le porte aperte: l’area ha un vincolo idrogeologico che viene superato con un nulla-osta del Corpo forestale, concesso in sole 48 ore di burocrazia efficientissima. Così come è superata la relazione idrogeologica del 1987, allegata al Piano regolatore del Comune, che descriveva la zona talmente instabile da «sconsigliare l’edificazione». Poco dopo aver ricevuto l’autorizzazione per l’inizio dei lavori, il 15 gennaio del 2005, la Eco Inerti viene ceduta alla Ile srl, controllata dalla Daneco Italimpianti. Il valore dell’impresa schizza da 10mila a 3 milioni di euro.

Ma cittadini, pochi consiglieri comunali e numerose interrogazioni parlamentari mettono sotto accusa la discarica: il progetto della Eco Inerti è ben diverso dalla realtà. La discarica è circondata dall’acqua: oltre alle falde sotterranee, lì vicino scorre il torrente Grotte, il cui letto è usato fino a ottobre 2010 come unica via d’accesso. Al centro dell’area c’era addirittura un pozzo per irrigare i campi. La magistratura apre un’inchiesta e nel settembre 2010 il gup rinvia a giudizio amministratori della Eco Inerti e progettisti. Secondo i pm avrebbero tratto in inganno il Comune di Pianopoli e il commissario per l’emergenza «prospettando una realtà dei luoghi diversa da quella esistente», sostenendo, cioè, «che il terreno non era interessato da movimenti franosi, che sullo stesso non esistevano falde acquifere, che il terreno avesse una permeabilità superiore a quella effettivamente esistente e che sullo stesso non esistevano coltivazioni agricole». Nonostante i problemi con la giustizia, nel 2008 la società riceve l’autorizzazione regionale per l’esercizio della discarica e chiede un ulteriore ampliamento, fino a 1,3 milioni di metri cubi di capacità. A novembre 2010, con la discarica aperta ai rifiuti urbani di 50 Comuni, arrivano le piogge e ritorna la magistratura: durante un sopralluogo i Noe e l’Arpacal scoprono, tra varie irregolarità, uno scarico abusivo di acqua mista a percolato, che rischia di inquinare il fiume Amato. Scatta il sequestro, richiesto dal pm lametino Salvatore Vitello. Alla fine di novembre la discarica è riconsegnata alla Daneco a cui viene ordinato di rimuovere il tubo e mettere tutto in regola. Ma per la Daneco la tubatura era antecedente alla costruzione della discarica ed era stata chiusa prima del luglio 2010. Solo accidentalmente le forti piogge l’avevano riaperta. Una vicenda molto simile a quella che aveva spinto i pm di Benevento ad aprire un’inchiesta su un’altra discarica della Daneco, quella di Sant’Arcagelo Trimonte.

Manuele Bonaccorsi e Anna Fava, Left n. 28 luglio 2011

 

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